Lunetta Gamberini: ricordando come era
Anche se ufficialmente il parco della Lunetta Gamberini appartiene al Quartiere Santo Stefano, i ricordi legati ai luoghi, non hanno confini… Il contributo di un cittadino che era piccolo negli anni 50
Anche se ufficialmente il parco della Lunetta Gamberini appartiene al Quartiere Santo Stefano, i ricordi legati ai luoghi, non hanno confini… Il contributo di un cittadino che era piccolo negli anni 50
Anche se ufficialmente il parco della Lunetta Gamberini appartiene al Quartiere Santo Stefano, i ricordi legati ai luoghi, non hanno confini… Riportiamo quindi con piacere sul blog, una testimonianza giunta alla nostra redazione, da Roberto Breschi, che ci racconta cosa rappresentava per i ragazzi, negli anni 50, La Lunetta Gamberini, soprannominata a quei tempi La Polveriera.
Ringraziamo Roberto Breschi, per questa poetica testimonianza.
Negli anni ’50 oltre via Sigonio fino alla ferrovia per Firenze erano tutti campi. Alcuni coltivati, altri lasciati allo stato brado e quello, per noi bambini della zona Mazzini, era il nostro ‘far west’ .
La zona più curiosa e prediletta era quella che noi chiamavamo della ‘polveriera’ (ma il nome ufficiale era Lunetta Gamberini), un’area incolta dove il verde ruspante era movimentato da diversi strani resti di costruzione, nascondigli ideali di giorno per noi bimbi e ragazzi, di sera per i fidanzati. Ne ricordo almeno quattro o cinque simili, ma staccati fra di loro. Queste ‘costruzioni’ – o meglio ruderi – erano come avanzi di fondamenta in parte interrate e circondate da rialzi che si elevavano fino a un paio di metri sul livello medio, il tutto ricoperto da verde spontaneo. Era agevole entrare ed uscire. In quella zona ora ci sono scuole e la palestra Moratello, oltre a un parco pubblico molto frequentato. Tutto cambiato, insomma.
Negli anni ’50 era il regno dell’avventura, circondato anche da un vago alone di zona pericolosa forse per via di quella parola ‘polveriera’ che evocava esplosioni di una guerra ancora ben presente nei pensieri dei ‘grandi’. Ora si può leggere su Internet che si trattava dei resti di edifici militari ottocenteschi, poi serviti anche per la produzione di esplosivi, di cui erano state abbattute la parti più alte e lasciati nel completo abbandono. Io e i miei due-tre amici del cuore ci andavamo nel pomeriggio con le nostre cerbottane e là, di solito, trovavamo altri ragazzi con cui ingaggiare regolari battaglie all’ultimo respiro. Ci si preparava una scorta di almeno 30 frecce di carta pronte all’uso che si usava infilare fra i capelli che, allo scopo, non dovevano essere troppo corti. Tenere le frecce fra i capelli assicurava la rapidità di ricarica dopo avere ‘sparato’ e non deformava le frecce come accade se le si tiene in tasca. La regola era che chi era colpito alla testa o al corpo era ‘morto’ mentre un colpo a braccia o gambe era una ferita e si poteva continuare a combattere. Una seconda ferita significava la ‘morte’. Ovviamente la battaglia finiva quando una squadra aveva perso tutti i combattenti. Poi c’erano le rivincite e si continuava fino a sera a meno che il richiamo di qualche mamma decimasse le formazioni. Con l’esperienza si erano sviluppate strategie di guerra sempre più raffinate. Il terreno degli scontri era concordato a priori, più o meno largo a seconda di quanti eravamo. Poi c’erano gli appostamenti, di solito nei ruderi delle ‘polveriere’ da parte di chi preferiva attendere in agguato, o gli attacchi concentrici e coordinati da parte dei più ‘arditi’. Il mio gruppetto era molto temuto, anche per la conoscenza palmo a palmo del posto che frequentavamo giornalmente per mesi all’anno. Vietatissime le frecce con lo spillo nella punta che erano invece in uso per la caccia alle lucertole (di quelle ne ho parecchie sulla coscienza), in ogni caso, pur con frecce normali, era buona norma portare un paio di occhiali da sole rimediati alla meglio, perché tutti sapevamo di un ragazzo che, anni prima, aveva perso un occhio.
Un giorno, in quel periodo, mio padre mi portò sulla torre Asinelli, dove non ero mai salito (e in effetti mai più tornato) e il mio interesse, invece delle tante chiese e piazze, ricordo che fu subito rivolto alla ‘nostra’ Lunetta Gamberini di cui riconobbi e verificai le zone dei nostri memorabili duelli. Mio padre mi aveva portato lassù per raccontarmi di quando ci doveva salire in tempo di guerra perché era stato assegnato ad un corpo ausiliario di ‘avvistatori’. Avevano a disposizione un binocolo, mappe delle strade di Bologna e un telefono e dovevano sorvegliare sia l’arrivo di aerei nemici sia, durante i bombardamenti, le zone che vedevano colpite per indirizzare i soccorsi e i vigili del fuoco. Non parlava mai di questo impegno, me lo accennò solo quella volta. Per fortuna non capitarono mai incursioni durante i suoi turni, ma so che si era sparsa la voce che i piloti americani avevano lanciato una sfida a chi riuscisse a tirare giù gli Asinelli e la bomba che distrusse la facciata della Mercanzia potrebbe avvalorare questa tesi, mai confermata.
Poi nella seconda metà degli anni ’50 i cantieri edili, superata via Sigonio iniziarono una marcia inarrestabile fino ad arrivare alla ferrovia e allora i ruderi delle ‘polveriere’ sparirono, ma noi ci eravamo fatti grandi per giocare a cerbottane e non ci pesò più di tanto: era il luminoso progresso del ‘miracolo economico’ che avanzava!
Foto di Sergio Palladini
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