A Carlo Monti, docente dell’Alma Mater (Dipartimento Architettura e Dipartimento Ingegneria civile, chimica, ambientale e dei materiali), il Think Tank di Salus Space ha chiesto di avviare una riflessione sul significato del concetto di “Rigenerazione Urbana” e di come questo si possa applicare al nostro progetto e più in generale ai processi di trasformazione del territorio.
Ho sentito parlare del progetto Salus Space quando ha vinto il bando europeo, ma ho capito davvero la sua importanza ascoltando la presentazione in un’assemblea di quartiere.
In quella occasione mi ha colpito la chiarezza degli obiettivi e la complessità della rete di relazioni che è stata costruita per preparare il progetto e per realizzarlo, e, soprattutto, ho visto una risposta concreta a domande che mi facevo da tempo sui problemi del riuso urbano.
E’ un tema sempre attuale e non facile. Come urbanista, ho partecipato a molte esperienze di pianificazione, ho esaminato tanti progetti urbani e insegno da tanti anni; a lezione parlo di quello che ho imparato nella mia attività, e a volte ho fatto dell’ironia sulle parole di moda, notando che spesso, nel nostro paese, quando un’iniziativa non ha successo la riproponiamo tale e quale, cambiando il nome. Un esempio sembra proprio quello del riuso urbano: nel 1978 si sono istituiti i Piani di recupero, poi negli anni ’90 i Programmi integrati di intervento, poi quelli di Riqualificazione urbana, oggi tutti parlano di rigenerazione urbana.
In realtà quei programmi hanno deluso molte aspettative per effetto dei mutamenti economici e sociali delle nostre città, e il cambio di nomi mostra uno sforzo per adeguarsi a tali mutamenti. Così col passare del tempo è stato sempre più chiaro che per recuperare un pezzo di città non basta un buon progetto urbanistico, e non basta neanche avere i finanziamenti necessari: occorre un progetto sociale e culturale, e questo richiede il coinvolgimento attivo della popolazione che vivrà in quell’area o userà i servizi che offre. Il termine “rigenerazione urbana” può e deve avere questo significato.
Il progetto Salus Space ne è un esempio concreto, e non è solo “una bella idea”, ma si sta realizzando in modo adeguato a produrre nel tempo gli effetti positivi sperati. Sembra infatti che non presenti gli errori più comuni delle esperienze passate. Facciamo un po’ di storia.
Innanzitutto, dobbiamo ricordare che alcuni dei “mostri” che oggi vogliamo demolire o trasformare radicalmente (il Corviale di Roma, le Vele di Scampia, lo Zen di Palermo…) nascevano proprio come generose utopie urbane, ricche di spazi comunitari progettati dai migliori architetti. L’errore: credere che basti uno spazio fisico ben disegnato per creare una comunità “obbligata” fra gente che spesso non ha nulla in comune. Non è successo solo in Italia: ricordo negli anni’70 gli spazi ben attrezzati e rimasti vuoti, destinati alle associazioni dei cittadini nelle New Towns inglesi appena realizzate.
In anni più recenti si sono avuti grandi progetti pubblici di riqualificazione urbana, che hanno inghiottito ingenti risorse, ma salvo qualche eccezione (Genova, Acquario e porto antico) hanno dato scarsi risultati, basta pensare all’area di Bagnoli a Napoli. Si sono allora costruite importanti partnership con i privati, realizzando in molte città operazioni di forte rilievo, con la firma di archistar e la costruzione di sedi di grandi banche e aziende. Anche questo non succede solo in Italia: basta pensare ai Docks di Londra o alla competizione mondiale fra i nuovi grattacieli, simboli del potere economico globalizzato.
Ma questa non è “rigenerazione” urbana, è a mio parere “sostituzione”: sostituzione fisica di nuovi spazi e soprattutto sostituzione di un’idea di città come “civitas”, luogo di relazioni personali e di vita comune, con un nuovo pezzo di città-macchina, secondo la peggiore evoluzione del Razionalismo.
Non possiamo neppure chiamare “rigenerazione urbana” gli interventi gestiti dai privati. Nella maggior parte dei casi questi interventi sono di dimensione troppo modesta per avere influenza sul contesto urbano, e comunque in genere i progettisti non si pongono neppure il problema, obbedendo alle regole di un mercato immobiliare miope. Troppe volte un’area centrale di una città viene liberata da una presenza ormai impropria (una caserma, una fabbrica abbandonata), sostituendola con un quartiere residenziale “blindato”, di fatto anch’esso estraneo alla vita della città. Anche gli interventi di maggiore respiro e di ottimo disegno (ad esempio “Le Albere” di Renzo Piano a Trento) rischiano di rimanere a lungo uno spazio distaccato dal resto della città.
Come notavamo all’inizio, da tutti i casi ricordati emerge che non basta avere un buon progetto urbanistico e finanziamenti adeguati, se i futuri abitanti dell’area saranno casualmente messi insieme da un’agenzia immobiliare o da una graduatoria di assegnatari di case popolari. In altri termini, se non si costruisce insieme un progetto sociale e culturale. Ma anche qui è necessaria qualche precisazione.
Negli anni passati come direttore di un Master in Architettura ecosostenibile ho portato due volte gli studenti in visita in un quartiere pilota vicino a Copenhagen, progettato secondo i più avanzati criteri di uso delle risorse, risparmio energetico e tutela dell’ambiente, con una forte vita comunitaria garantita dalla comune scelta ambientalista degli abitanti. Tutto bello ed efficiente, ma con il rischio di una chiusura al mondo esterno; essendone consapevoli i responsabili del quartiere cercavano di evitarlo con iniziative culturali aperte, anche semplici, ad esempio attrezzando aree molto attraenti per invitare i bambini dei quartieri vicini a giocare e a visitare la vecchia fattoria che avevano conservato vicino alle nuove case, per vedere gli animali, i modi di coltivare e di produrre alimenti.
La necessità di evitare il rischio di eccessiva omogeneità e di chiusura all’esterno è stata anche considerata fra gli obiettivi di base di un noto progetto di rigenerazione urbana che il mio amico Christian Schaller ha portato a termine a Colonia, recuperando un’antica fabbrica. Non conoscendo esempi italiani altrettanto positivi, ho segnalato spesso questa esperienza come esempio.
Dopo le prime ipotesi di diversi architetti, a Colonia si è avviato un processo di costruzione partecipata del progetto, mettendo insieme giovani coppie, anziani, artigiani e artisti interessati ad avere casa e bottega, negozianti, cooperative, imprese di costruzione, banche. Questa parte del progetto ha richiesto forse più tempo della sua realizzazione fisica, ma in questo modo si è avuto un risultato duraturo. E’ interessante notare inoltre che la zona era già ben servita da infrastrutture e trasporti pubblici, e quindi si è potuto ricostruire un pezzo di tessuto urbano quasi tradizionale, non dominato dalle auto, che per molti abitanti non sono più indispensabili nella vita quotidiana. Infine, le diverse attività presenti garantiscono lo sviluppo di rapporti con le aree urbane vicine.
A questo punto, penso sia chiaro perché ritengo che il progetto Salus Space possa essere considerato un esempio di rigenerazione urbana, a Bologna e non solo.
Innanzitutto per le caratteristiche del progetto, complesso, integrato e realizzabile gradualmente, che hanno sicuramente contribuito ad ottenere il premio europeo e i finanziamenti necessari, poi per la sua polivalenza, costruita attraverso la collaborazione con i tanti partners coinvolti. Questo spazio fisico è infatti pensato come un luogo in cui c’è chi abita stabilmente, chi è accolto per necessità e chi viene ospitato da un’attività ricettiva, chi segue un percorso formativo e chi insegna in quel percorso, chi coltiva orti e giardini e chi ne usa i prodotti per fare attività di ristorazione, chi lavora o impara in un laboratorio artistico o teatrale. E questo spazio sociale sarà per sua fondazione non solo multietnico, ma anche multiculturale, come del resto è – e sarà sempre più – la città di Bologna.
Una città che dal Medioevo tenta di sfuggire all’invecchiamento e alla mediocrità cercando di attirare giovani, nuove energie e nuove idee.