Come succedeva una volta sulle ruote di Roma e Napoli, è arrivato il momento del secondo estratto dalle “Voci del Villaggio” (Edizioni Delta 3, 2008-qui la prima puntata). A differenza del vecchio Enalotto, però, l’esito di questo sorteggio non è per niente casuale: il ’57 è infatti l’anno del trasferimento di tantissime famiglie alle Due Madonne, l’anno in cui le strade del rione cominciano ad animarsi e l’anno di nascita delle prime attività autoctone (commerciali, sociali e religiose). Una specie di “anno uno”, insomma.
Per rievocare quel momento germinale, Emanuele Grieco ha inserito nel prologo del suo libro un breve testo autobiografico della sorella Marineva. È un racconto al tempo stesso lucido e trasognato, in cui l’autrice, attraverso una serie di dissolvenze incrociate, compone una panoramica dei luoghi dove ha trascorso l’infanzia. Luoghi presenti tutt’oggi nelle mappe di Bologna, ma che la sua memoria sembra rendere unici, perché i ricordi dell’infanzia sono alti un metro e venti e dopo è impossibile ritrovare lo stesso angolo.
Se ripensiamo a un compagno di classe o alla prima amica del cuore, a un attimo di felicità o a uno di disperazione, leghiamo sempre il ricordo a un posto determinato, a una luce particolare, a un velo di nebbia, a un raggio radente. O, come scrive Marineva rivedendosi giovane pioniera del villaggio Due Madonne, a una collina di detriti: dove una mattina del ’57 è spuntata, fulminea, la sagoma di una piccola indiana.
Sergio Palladini
Il Villaggio
Ricordo l’estate del ’57 perché attraverso i primi dolori conobbi il valore dell’amicizia. Presto ci saremmo trasferiti nella casa nuova, così tanto nominata e desiderata dai miei genitori che anch’io ne fantasticavo come di un atteso giocattolo. Non ho memoria delle precedenti abitazioni, ma dei luoghi dei miei divertimenti infantili, sì.
Piazza Maggiore, dove rincorrevo capannelli di piccioni per sentire il crepitio delle loro ali, mentre spaventati si alzavano in volo e lasciavano cadere nel mulinello d’aria minuscole piume ondeggianti. I Giardini Margherita, popolati di bambini, mamme e militari, dove i piccoli analfabeti scorazzavano sui prati, incuranti del cartello VIETATO CALPESTARE LE AIUOLE. Anch’io ero attratta dalle margheritine bianche e mi spingevo qualche passo oltre il lecito per raccoglierle, salvo fare un veloce dietrofront quando vedevo comparire la divisa del vigile. Le sale vuote dei cinema dove ogni pomeriggio mi recavo con mio padre. Proiettavano storie di gladiatori che combattevano contro i leoni, perfide egiziane murate nelle loro piramidi e danzatrici in tutù che volteggiavano lievi come zucchero filato.
E’ difficile esprimere la delusione di un bambino, però ricordo che mi sentii tradita quando vidi dove avremmo abitato. Per raggiungere il Villaggio Due Madonne, dopo due autobus, si attraversavano strade non ancora asfaltate, e da desolati e polverosi rettangoli di terra spuntavano enormi palazzi che a me sembrava nascondessero il cielo. Non c’erano giardini, non c’erano negozi, non c’erano cinema e non c’erano bambini.
Per giorni giocai nel cortile fra i calcinacci, sola e annoiata. Una mattina, spuntata da una collina di detriti mi apparve una piccola squaw, aveva trecce nere così lunghe che le dondolavano ai fianchi. Ci guardammo e ci studiammo per un po’ con aria impacciata, poi presi il coraggio e le chiesi: “sono tue le trecce?”. Il suo nome era Maria ed è stata per cinque anni l’amica del cuore, abbiamo diviso pane burro e zucchero che ci preparava sua madre, “amato” lo stesso bambino, Gianni, e faticato a raddrizzare aste con un pennino spuntato. L’ho convinta a fare “fughino” da scuola in seconda elementare e lei a portarmi in parrocchia a cantare. Ci siamo perse per strade di campagna per cercare i profumati fiori violetti del cipollaccio e abbiamo raccolto sporte di dormienti lumache, mangiato i frutti del biancospino e succhiato il nettare al trifoglio.
Crescevamo in fretta, i nostri corpi si allungavano come rami a primavera, e presto cominciò la stagione della potatura con i divieti di andare, di fare, di frequentare. Il quartiere si sviluppò, dopo le strade, costruirono muri e balaustre di ferro tra le case, così noi, divise come recluse, ci parlavamo attraverso le sbarre.
Tra la stretta feritoia della ringhiera mi apparve una mattina come un fantasma: le trecce tagliate, i cortissimi capelli a pennacchio, il viso smunto, le occhiaie. Provai incredulità, come un dolore e la sensazione paurosa che l’infanzia stesse finendo. Gli adulti avevano deciso per noi, ma coincideva con il cambiamento inevitabile verso l’adolescenza.
Le scelte di scuola e di vita furono diverse e ci rivedemmo solo trentenni. Avevamo tante cose nuove da raccontarci, preferimmo fermarci al “ti ricordi di…?”. Sì, perché per me lei era ancora la piccola squaw dalle lunghe trecce ed io la bambina maschiaccio con i pantaloncini.
Marineva Grieco