Una nuova conferenza dedicata a Villa Salus e al Prof. Scaglietti
Il prestigioso Comitato per Bologna Storica e Artistica – fondato nel 1899 – per far conoscere sempre di più e sempre meglio la storia, l’arte
Il prestigioso Comitato per Bologna Storica e Artistica – fondato nel 1899 – per far conoscere sempre di più e sempre meglio la storia, l’arte
Il prestigioso Comitato per Bologna Storica e Artistica – fondato nel 1899 – per far conoscere sempre di più e sempre meglio la storia, l’arte e la cultura della nostra città, oltre alla pubblicazione delle annuali Strenne storiche bolognesi, promuove delle conferenze nella sua sede di Strada Maggiore 71, aperte al pubblico, su svariati temi. Vi è un ciclo primaverile e uno autunnale.
Nell’ambito degli Incontri primaverili è stato chiesto ai promotori dell’Angolo della storia a Salus Space di tenere una conferenza sul tema: “Il Prof. Scaglietti e Villa Salus”. La conferenza (con supporto di immagini) si terrà venerdì 7 giugno alle ore 17 nella sede del comitato (Strada Maggiore 71) e sarà tenuta dalla dott.ssa Marilena Frati e da Emanuele Grieco. Tutti coloro che intendono conoscere meglio la storia del grande luminare dell’Ortopedia e della sua clinica privata bolognese sono invitati e ben accetti.
di Marilena Frati e Emanuele Grieco
Anche se ufficialmente il parco della Lunetta Gamberini appartiene al Quartiere Santo Stefano, i ricordi legati ai luoghi, non hanno confini… Il contributo di un cittadino che era piccolo negli anni 50
Anche se ufficialmente il parco della Lunetta Gamberini appartiene al Quartiere Santo Stefano, i ricordi legati ai luoghi, non hanno confini… Riportiamo quindi con piacere sul blog, una testimonianza giunta alla nostra redazione, da Roberto Breschi, che ci racconta cosa rappresentava per i ragazzi, negli anni 50, La Lunetta Gamberini, soprannominata a quei tempi La Polveriera.
Ringraziamo Roberto Breschi, per questa poetica testimonianza.
Negli anni ’50 oltre via Sigonio fino alla ferrovia per Firenze erano tutti campi. Alcuni coltivati, altri lasciati allo stato brado e quello, per noi bambini della zona Mazzini, era il nostro ‘far west’ .
La zona più curiosa e prediletta era quella che noi chiamavamo della ‘polveriera’ (ma il nome ufficiale era Lunetta Gamberini), un’area incolta dove il verde ruspante era movimentato da diversi strani resti di costruzione, nascondigli ideali di giorno per noi bimbi e ragazzi, di sera per i fidanzati. Ne ricordo almeno quattro o cinque simili, ma staccati fra di loro. Queste ‘costruzioni’ – o meglio ruderi – erano come avanzi di fondamenta in parte interrate e circondate da rialzi che si elevavano fino a un paio di metri sul livello medio, il tutto ricoperto da verde spontaneo. Era agevole entrare ed uscire. In quella zona ora ci sono scuole e la palestra Moratello, oltre a un parco pubblico molto frequentato. Tutto cambiato, insomma.
Negli anni ’50 era il regno dell’avventura, circondato anche da un vago alone di zona pericolosa forse per via di quella parola ‘polveriera’ che evocava esplosioni di una guerra ancora ben presente nei pensieri dei ‘grandi’. Ora si può leggere su Internet che si trattava dei resti di edifici militari ottocenteschi, poi serviti anche per la produzione di esplosivi, di cui erano state abbattute la parti più alte e lasciati nel completo abbandono. Io e i miei due-tre amici del cuore ci andavamo nel pomeriggio con le nostre cerbottane e là, di solito, trovavamo altri ragazzi con cui ingaggiare regolari battaglie all’ultimo respiro. Ci si preparava una scorta di almeno 30 frecce di carta pronte all’uso che si usava infilare fra i capelli che, allo scopo, non dovevano essere troppo corti. Tenere le frecce fra i capelli assicurava la rapidità di ricarica dopo avere ‘sparato’ e non deformava le frecce come accade se le si tiene in tasca. La regola era che chi era colpito alla testa o al corpo era ‘morto’ mentre un colpo a braccia o gambe era una ferita e si poteva continuare a combattere. Una seconda ferita significava la ‘morte’. Ovviamente la battaglia finiva quando una squadra aveva perso tutti i combattenti. Poi c’erano le rivincite e si continuava fino a sera a meno che il richiamo di qualche mamma decimasse le formazioni. Con l’esperienza si erano sviluppate strategie di guerra sempre più raffinate. Il terreno degli scontri era concordato a priori, più o meno largo a seconda di quanti eravamo. Poi c’erano gli appostamenti, di solito nei ruderi delle ‘polveriere’ da parte di chi preferiva attendere in agguato, o gli attacchi concentrici e coordinati da parte dei più ‘arditi’. Il mio gruppetto era molto temuto, anche per la conoscenza palmo a palmo del posto che frequentavamo giornalmente per mesi all’anno. Vietatissime le frecce con lo spillo nella punta che erano invece in uso per la caccia alle lucertole (di quelle ne ho parecchie sulla coscienza), in ogni caso, pur con frecce normali, era buona norma portare un paio di occhiali da sole rimediati alla meglio, perché tutti sapevamo di un ragazzo che, anni prima, aveva perso un occhio.
Un giorno, in quel periodo, mio padre mi portò sulla torre Asinelli, dove non ero mai salito (e in effetti mai più tornato) e il mio interesse, invece delle tante chiese e piazze, ricordo che fu subito rivolto alla ‘nostra’ Lunetta Gamberini di cui riconobbi e verificai le zone dei nostri memorabili duelli. Mio padre mi aveva portato lassù per raccontarmi di quando ci doveva salire in tempo di guerra perché era stato assegnato ad un corpo ausiliario di ‘avvistatori’. Avevano a disposizione un binocolo, mappe delle strade di Bologna e un telefono e dovevano sorvegliare sia l’arrivo di aerei nemici sia, durante i bombardamenti, le zone che vedevano colpite per indirizzare i soccorsi e i vigili del fuoco. Non parlava mai di questo impegno, me lo accennò solo quella volta. Per fortuna non capitarono mai incursioni durante i suoi turni, ma so che si era sparsa la voce che i piloti americani avevano lanciato una sfida a chi riuscisse a tirare giù gli Asinelli e la bomba che distrusse la facciata della Mercanzia potrebbe avvalorare questa tesi, mai confermata.
Poi nella seconda metà degli anni ’50 i cantieri edili, superata via Sigonio iniziarono una marcia inarrestabile fino ad arrivare alla ferrovia e allora i ruderi delle ‘polveriere’ sparirono, ma noi ci eravamo fatti grandi per giocare a cerbottane e non ci pesò più di tanto: era il luminoso progresso del ‘miracolo economico’ che avanzava!
Foto di Sergio Palladini
Tra i cittadini giornalisti della redazione di Salus Space c’è Marilena Frati, esperta di storia locale. E’ l’autrice del testo che vi proponiamo, dedicato alla storia dell’area che comprende Villa Salus e via Malvezza, detta Cerro Maggiore…
Tra i cittadini giornalisti della redazione di Salus Space c’è Marilena Frati, esperta di storia locale e Presidente dell’Associazione “Cultura e Arte del ‘700”. E’ l’autrice del testo che vi proponiamo, dedicato alla storia dell’area che comprende Villa Salus e via Malvezza, detta Cerro Maggiore. Il brano fa parte della ricerca storica pubblicata nel 1999 dall’Associazione con il titolo “Qui dove scorre il fiume”.
Anche il viandante più frettoloso, arrivato in quella che era chiamata località “Il Cerro”, dal latino” cerrus”, l’albero simile alla quercia molto frequente nelle nostre terre, non può non chiedersi a chi appartenesse quell’antico caseggiato che ora campeggia imponente fra il Cimitero dei Polacchi e il fianco della via Vighi, stradone che conduce alla tangenziale, uscita 12.
Questa antica costruzione a corte quadrata, con torre colombaia centrale che svetta verso l’alto e rende equilibrata la simmetria della fabbrica, suscita curiosità e conduce alla memoria un passato storico da riscoprire.
Il “ Cerro Maioris”, grazie alla fertilità del suo terreno, trae le sue origini da ben lontano: sia Polibio (210-125 a.C.) – storico greco vissuto a Roma – sia Strabone (58 a.C. – 21 d. C.) ci ricordano che questa zona a est di “Bononia” era abitata già in epoca Villanoviana e fu poi scelta quale dimora dalla “Octava Legio Aemilia”. E’ certo che questa fu una zona che per ricchezza si prestava agli insediamenti. Esisteva una selva di “cerri” (da cui il toponimo Cerro e Roveri) che permetteva l’allevamento dei maiali grazie alla ricca produzione di ghiande.
Ma è solo nel 1084 che troviamo menzionato il toponimo “Cerro Maioris” (forse perché lì si trovava il cerro più grande o più vecchio) in certe carte notarili scritte senz’altro per atti di compravendita di appezzamenti e vigne. Nell’archivio di Pizzocalvo viene ricordata infatti una confraternita di preti che vendettero un appezzamento di terreno fuori della città di Bologna e vicino alla chiesa di San Prospero.
Poche sono le date certe che ci ricordano l’evolversi di questa comunità.
Nel 1223 Cerro Maggiore, che possedeva una piccola chiesa parrocchiale dedicata a San Giorgio, con le sue poche anime, passò al quartiere di San Cassiano sotto il giuspatronato delle monache dei santi Vitale e Agricola.
Certamente le monache fra quelle mura elessero un ospedale che, all’occorrenza, venne trasformato in Lazzaretto, poiché, per disposizioni governative, tutti i malati infetti venivano accuditi fuori città per evitare o allontanare i contagi. (…)
Nel 1371 gli estimi riportano la presenza di 27 nuclei familiari contro i 10 del 1249, nuclei tutti dediti alla coltura dei campi e all’allevamento. (…)
Le vicende comunali e le belligeranze fra le famiglie aristocratiche bolognesi emergenti che si contendevano il potere, con i ripetuti assalti inferti dalle truppe mercenarie assoldate da questo o quel signore, causarono alla fine del XV secolo, il graduale abbandono di queste dimore del Borgo antico da parte dei residenti. Lo spopolamento provocò anche profondi mutamenti economici: gli ex contadini della zona, che andarono verso la città, abbandonarono a poco a poco l’agricoltura e si dedicarono al commercio e all’artigianato, impoverendo sempre più quelle zone abbandonate a se stesse e ai saccheggi. (…)
Non si conoscono esattamente tutti i passaggi di proprietà dal XVI secolo in poi fino a quando una notifica del 1859 del cardinale Legato Milesi parla dell’espropriazione di quei terreni necessari per la costruzione della ferrovia. (…)
Senz’altro il complesso passò alla famiglia Malvezzi nella metà dell’800, ingrandendo così la proprietà terriera della famiglia che in quella zona possedeva dal 1835 anche la villa settecentesca fatta costruire in quei paraggi nel 1777 da A.F. Monti , luogotenente di Napoleone Bonaparte, da un architetto francese,ora Villa Salus (come critto da Umberto Beseghi in “ Castelli e Ville bolognesi”).
A ricordo dell’antica proprietà Malvezzi è rimasto solo il nome della via Malvezza.
Il complesso del Cerro venne venduto nel 1946 dall’Onorevole Cacciari alla famiglia Ansaloni che trasformò il terreno in vivaio. (…)
Nel 1949/50 il Prof. Oscar Scaglietti acquistò l’intera proprietà con la villa settecentesca che, negli anni successivi, pur mantenendo intatta la sua veste storica , divenne la parte centrale dell’immobile adibito a Casa di Cura, nota nel mondo col nome di “Villa Salus”, prestigioso centro ortopedico. (…)
Marilena Frati
Davvero fitto il calendario di eventi che si svolgono al Circolo Arci Benassi, in viale Sergio Cavina 4, in questo mese di marzo. Gli appuntamenti …
Davvero fitto il calendario di eventi che si svolgono al Circolo Arci Benassi, in viale Sergio Cavina 4, in questo mese di marzo.
Cominciamo con la serie di conferenze dedicate alla conoscenza della storia e della cultura cittadina, curata da Marco Poli. Il titolo è Eventi di una città. Da non dimenticare. Ecco gli appuntamenti, sempre alle 15,30, nella sala Napoleone, ad ingresso libero:
13 Marzo: Le donne nella storia di Bologna. Molte sono le donne che hanno lasciato un segno indelebile nella storia della nostra città. Alcune sono molto note e famose, ma tante non hanno volto. L’8 marzo è la festa anche di queste donne. (con immagini)
20 Marzo: Bologna capitale della seta. Per quasi quattro secoli Bologna è stata la “capitale della seta”. Merito dell’innovazione tecnologica e degli investimenti sul sistema delle acque: il mulino da seta meccanico ha rappresentato la rivoluzione nella produzione della seta portando occupazione e benessere. (con immagini)
27 Marzo: Mi ricordo Bologna’ 2. Le foto di Walter Breveglieri dal 1945 al 1970. Ripercorriamo, con le fotografie di Walter Breveglieri contenute nel secondo volume di “Mi ricordo Bologna”, la vita quotidiana negli anni della ricostruzione e della conquista del benessere. (con immagini)
per informazioni: 051/450155-051/450638 – 334/1136944
Sempre al circolo Benassi, si terranno tre serate cinematografiche, alle 20.45, dedicate a Cina e Giappone: Oriente, ritratti di Famiglia
6 Marzo: Al di là delle montagne – (2015) di Jia Zhang-Ke, (Cina-Francia) con Zhao Tao e Jing Dong /BIM
13 Marzo: Father and son – (2013) di Kore-Eda Hirokazu (Giappone) con Masaharu Fukuyama e Machiko Ono /BIM
20 Marzo: Little sister – (2015) di Kore-Eda Hirokazu (Giappone) con Haruka Ayase e Masami Nagasawa /BIM
Le serate sono per i soci, l’entrata è a offerta libera e all’inizio della proiezione c’è una breve presentazione. L’approfondimento bibliografico è a cura della Biblioteca “Natalia Ginzburg”
Infine, sempre al Benassi parte dal 8 marzo la rassegna/concorso di comici provenienti da tutta Italia RIDàN à BULàGGNA ! Appuntamento per i giovedì 8-15-22-Marzo, la finale sarà il 7 aprile.Per assicurarsi l’ingresso e il tavolo per ogni serata bisogna prenotare allo 051451201 o via mail: ridanbologna@gmail.com
Come succedeva una volta sulle ruote di Roma e Napoli, è arrivato il momento del secondo estratto dalle “Voci del Villaggio”…
Come succedeva una volta sulle ruote di Roma e Napoli, è arrivato il momento del secondo estratto dalle “Voci del Villaggio” (Edizioni Delta 3, 2008-qui la prima puntata). A differenza del vecchio Enalotto, però, l’esito di questo sorteggio non è per niente casuale: il ’57 è infatti l’anno del trasferimento di tantissime famiglie alle Due Madonne, l’anno in cui le strade del rione cominciano ad animarsi e l’anno di nascita delle prime attività autoctone (commerciali, sociali e religiose). Una specie di “anno uno”, insomma.
Per rievocare quel momento germinale, Emanuele Grieco ha inserito nel prologo del suo libro un breve testo autobiografico della sorella Marineva. È un racconto al tempo stesso lucido e trasognato, in cui l’autrice, attraverso una serie di dissolvenze incrociate, compone una panoramica dei luoghi dove ha trascorso l’infanzia. Luoghi presenti tutt’oggi nelle mappe di Bologna, ma che la sua memoria sembra rendere unici, perché i ricordi dell’infanzia sono alti un metro e venti e dopo è impossibile ritrovare lo stesso angolo.
Se ripensiamo a un compagno di classe o alla prima amica del cuore, a un attimo di felicità o a uno di disperazione, leghiamo sempre il ricordo a un posto determinato, a una luce particolare, a un velo di nebbia, a un raggio radente. O, come scrive Marineva rivedendosi giovane pioniera del villaggio Due Madonne, a una collina di detriti: dove una mattina del ’57 è spuntata, fulminea, la sagoma di una piccola indiana.
Sergio Palladini
Il Villaggio
Ricordo l’estate del ’57 perché attraverso i primi dolori conobbi il valore dell’amicizia. Presto ci saremmo trasferiti nella casa nuova, così tanto nominata e desiderata dai miei genitori che anch’io ne fantasticavo come di un atteso giocattolo. Non ho memoria delle precedenti abitazioni, ma dei luoghi dei miei divertimenti infantili, sì.
Piazza Maggiore, dove rincorrevo capannelli di piccioni per sentire il crepitio delle loro ali, mentre spaventati si alzavano in volo e lasciavano cadere nel mulinello d’aria minuscole piume ondeggianti. I Giardini Margherita, popolati di bambini, mamme e militari, dove i piccoli analfabeti scorazzavano sui prati, incuranti del cartello VIETATO CALPESTARE LE AIUOLE. Anch’io ero attratta dalle margheritine bianche e mi spingevo qualche passo oltre il lecito per raccoglierle, salvo fare un veloce dietrofront quando vedevo comparire la divisa del vigile. Le sale vuote dei cinema dove ogni pomeriggio mi recavo con mio padre. Proiettavano storie di gladiatori che combattevano contro i leoni, perfide egiziane murate nelle loro piramidi e danzatrici in tutù che volteggiavano lievi come zucchero filato.
E’ difficile esprimere la delusione di un bambino, però ricordo che mi sentii tradita quando vidi dove avremmo abitato. Per raggiungere il Villaggio Due Madonne, dopo due autobus, si attraversavano strade non ancora asfaltate, e da desolati e polverosi rettangoli di terra spuntavano enormi palazzi che a me sembrava nascondessero il cielo. Non c’erano giardini, non c’erano negozi, non c’erano cinema e non c’erano bambini.
Per giorni giocai nel cortile fra i calcinacci, sola e annoiata. Una mattina, spuntata da una collina di detriti mi apparve una piccola squaw, aveva trecce nere così lunghe che le dondolavano ai fianchi. Ci guardammo e ci studiammo per un po’ con aria impacciata, poi presi il coraggio e le chiesi: “sono tue le trecce?”. Il suo nome era Maria ed è stata per cinque anni l’amica del cuore, abbiamo diviso pane burro e zucchero che ci preparava sua madre, “amato” lo stesso bambino, Gianni, e faticato a raddrizzare aste con un pennino spuntato. L’ho convinta a fare “fughino” da scuola in seconda elementare e lei a portarmi in parrocchia a cantare. Ci siamo perse per strade di campagna per cercare i profumati fiori violetti del cipollaccio e abbiamo raccolto sporte di dormienti lumache, mangiato i frutti del biancospino e succhiato il nettare al trifoglio.
Crescevamo in fretta, i nostri corpi si allungavano come rami a primavera, e presto cominciò la stagione della potatura con i divieti di andare, di fare, di frequentare. Il quartiere si sviluppò, dopo le strade, costruirono muri e balaustre di ferro tra le case, così noi, divise come recluse, ci parlavamo attraverso le sbarre.
Tra la stretta feritoia della ringhiera mi apparve una mattina come un fantasma: le trecce tagliate, i cortissimi capelli a pennacchio, il viso smunto, le occhiaie. Provai incredulità, come un dolore e la sensazione paurosa che l’infanzia stesse finendo. Gli adulti avevano deciso per noi, ma coincideva con il cambiamento inevitabile verso l’adolescenza.
Le scelte di scuola e di vita furono diverse e ci rivedemmo solo trentenni. Avevamo tante cose nuove da raccontarci, preferimmo fermarci al “ti ricordi di…?”. Sì, perché per me lei era ancora la piccola squaw dalle lunghe trecce ed io la bambina maschiaccio con i pantaloncini.
Marineva Grieco
“Voci del Villaggio” di Emanuele Grieco costituisce un insostituibile almanacco storico di una fetta di Bologna per certi versi unica: il Villaggio Due Madonne. Vi proponiamo qualche breve estratto dal libro…
In una guida turistica o in un manuale si può sempre rintracciare la voce di cui abbiamo bisogno.
In una guida “sentimentale”, al contrario, ogni voce è sparsa e non ci sono rimandi. Ma attraverso le voci è anche possibile raccontare un luogo, la sua storia e i suoi abitanti, in un modo al tempo stesso personale e sistematico: proprio quel che è riuscito a fare Emanuele Grieco con il rione Due Madonne.
Le sue “Voci del Villaggio”, pubblicate dieci anni fa e ordinate secondo i criteri dell’alfabeto e del cuore, costituiscono infatti un insostituibile almanacco storico di questa fetta di città per certi versi unica.
E compongono un diario di ricordi malinconici, di ironie argute e di considerazioni lievi fissate in una serie di spunti, scatti e parole-clic capaci di fotografare, di volta in volta, un panorama o un dettaglio del Villaggio.
Questa polifonia di voci “lontane ma sempre presenti” ci sembra ora perfettamente in grado di armonizzarsi nel coro del nostro blog, che dal materiale di Grieco ha già attinto preziose informazioni e foto. Perciò, a partire da oggi, cominceremo a pubblicare interi paragrafi di questa “villaggiopedia”, scelti a rotazione fra i sette capitoli che la compongono (“Storia religiosa”, “Storia politica”, Storia sociale e culturale”, “Il territorio – Villaggio e dintorni”, “Il villaggio dello sport”, “Persone”, “Com’eravamo”). Ringraziamo di cuore Emanuele per averci messo a disposizione il contenuto del suo libro (reperibile in una manciata di biblioteche cittadine) e lasciamo che ad aprire questa serie di contributi siano le sue parole più intime: quelle usate nell’introduzione per spiegare la genesi delle ricerche e per descrivere il tono delle voci che ascolteremo, un po’ alla volta, da qui in avanti.
Sergio Palladini
Introduzione
Da alcuni anni, nella piazza del Villaggio Due Madonne, una volta al mese si svolge il “Mercatino delle cose antiche”. Questa esposizione – come altre analoghe in altre parti della città e della provincia – riscuote un notevole successo. Tanta gente visita i curiosi e pittoreschi banchetti e molti acquistano oggetti di vario tipo, magari quegli stessi oggetti che anni e decenni fa avevano gettato come cose inutili, sorpassate, ingombranti. Come afferma la scrittrice Antonia Arslan “la modernità iniziale si è stemperata in nostalgia di un buon tempo antico, e gli oggetti e le costruzioni una volta considerati attualissimi sono diventati oggetti di nostalgia antiquaria”. Anch’io sono un appassionato visitatore e un “topo di mercatini”, un cercatore accanito di “cose vecchie”. E forse, con lo stesso atteggiamento mentale, scruto nel passato, scavo nella memoria, ricerco le “cose antiche”, della mia famiglia, dei luoghi di origine dei miei familiari, della città in cui sono nato, del quartiere in cui ho vissuto. A volte penso che il passato, la storia, la memoria, hanno in sé un irresistibile fascino e, insieme, una perversa attrazione. Cos’è la memoria? A cosa serve? Scrive Guido Dotti che “la memoria è il luogo della mente e del cuore in cui, temprati dalle ferite del passato, discerniamo ciò che dell’oggi è degno di avere un futuro. Facendo memoria, anche di eventi drammatici, trasformiamo il passato in tesoro per l’oggi e promessa per l’avvenire, lo riscattiamo dall’oblio e dall’abisso del non senso. Memoria non significa riesumare il passato come fosse un cadavere, bensì ridargli vita per l’oggi e caricarlo di senso per il domani”.
Io sono nato a Bologna l’8 agosto 1956. Nel luglio 1957 – non avevo ancora un anno – la mia famiglia prese finalmente possesso del tanto agognato appartamento al Villaggio Due Madonne, in via Carli, dove io vivo tuttora. In un certo senso il Villaggio e io siamo nati e cresciuti insieme. E insieme abbiamo compiuto i 50 anni. Per ricordare questo duplice “giubileo” ho scritto queste note, cercando di mettere ordine nei ricordi miei, dei miei familiari e di tante altre persone e famiglie che ho ascoltato in questi mesi e che al Villaggio hanno vissuto per anni e decenni.
E’ necessario innanzitutto fare una premessa: questo è un libro a carattere amatoriale, non ha la pretesa e la natura di un lavoro scientifico, sia esso storico o sociologico. E’ solo il frutto dei ricordi e della ricerca di una persona che ha vissuto in questo luogo – il Villaggio Due Madonne – per 50 anni. In queste pagine non c’è la “storia ufficiale” del Villaggio, n’è tutto o la maggior parte della cronaca, delle persone e degli eventi del Villaggio. C’è solo una parte di quella realtà, quella vissuta e rammentata da me e da altre persone. Non avendo tenuto un diario nel corso degli anni ed essendo pochi i documenti della storia di questo mezzo secolo relativi al nostro rione, ho cercato di rivedere questo lungo periodo con gli occhi della memoria, scavando anche nei ricordi e nelle emozioni di diverse persone testimoni di questa realtà.
Ne è scaturito un ricco, variegato – e forse talora confuso – assemblaggio di persone, luoghi, fatti, parte della storia e della vita di questo territorio. Per quanto riguarda il periodo di riferimento, l’attenzione si è concentrata prevalentemente sugli anni di fondazione e di formazione del nostro rione, gli anni ’50 e ’60 e anche sul momento di forte sviluppo, negli anni ’70. Non mancano episodi e persone relative agli anni successivi, ma questi ultimi sono momenti più vicini all’attualità, ad un presente che spesso viviamo distrattamente e che sembra non lasciare tracce. Gli anni e i decenni più lontani, in cui il Villaggio è sorto, vengono qui rivissuti e rivisitati, non senza una venatura di nostalgia, di ricerca del “come eravamo”, per meglio capire come siamo.
Molte persone hanno contribuito alla elaborazione di questo libro, familiari, amici, vicini di casa, persone e famiglie testimoni di questi intensi anni di vita di un quartiere popolare un po’ speciale. Ho voluto ricordare tante persone, anche tra coloro che oggi non abitano più al Villaggio e neppure nella nostra città, anche per tentare di soddisfare quella umana, naturale curiosità che spinge a chiederci, talora: che fine ha fatto quella persona che conoscevo? Dov’è andato quel ragazzo che giocava con me? Cosa avrà fatto nella vita quel mio ex-compagno di scuola o quella giovane che incontravo in parrocchia o nella piazzetta? Domande normali, che forse nella vita tumultuosa di una città si stemperano e non trovano accoglienza o risposta, ma il Villaggio, invece, è sempre stato come un paese, soprattutto nei primi anni e decenni, quando era più decentrato, isolato dal resto del quartiere e della città. La piazza e la chiesa al suo centro e tutto il centro abitato attorno, anche questo ricorda un paese. I negozi, i portici, i luoghi di aggregazione sociale, i palazzi e i caseggiati popolari, i cortili, i campi, le grandi strade di riferimento esterne al rione, come la via Emilia, i tanti problemi e desideri comuni a molte persone e famiglie, la vita religiosa e anche politica e sociale per molti versi comune a molti individui, questo e altro hanno fatto percepire il Villaggio come un paese. Sensazione che in parte è rimasta, nonostante i grandi mutamenti degli ultimi anni e nonostante la creazione di nuove strade, case, strutture che hanno modificato i confini del Villaggio e fatto penetrare (e confondere) il rione nel resto del quartiere e di Bologna.
Quanto sia cambiato il Villaggio rispetto ai tempi della sua fondazione, lo può testimoniare, indirettamente, un fatto apparentemente minimo, marginale, una notizia ricavata sfogliando le annate del Bollettino Parrocchiale della Parrocchia “Nostra Signora della Fiducia”: nel primo numero, del febbraio 1959, il parroco ricordando le date e gli orari delle benedizioni pasquali alle famiglie, comunica che il 23 marzo sarebbe stato il turno delle “case coloniche in cui si diede la benedizione di S. Antonio”. Il ricordo di queste case di campagna, ben impresso in alcuni abitanti del Villaggio, da solo basterebbe a indicare l’intensità delle trasformazioni avvenute nel corso degli anni.
In questo libro sono ricordate anche persone che non ci sono più, ma che tanti ricordano con piacere, affetto e che hanno fatto del bene alla comunità, sia essa quella parrocchiale o politica, sociale, in generale. Non tutto ho potuto conoscere, rintracciare e rievocare in questo libro, ma certamente qualcosa del Villaggio, dei suoi 50 anni, della gente che vi ha vissuto, degli eventi accaduti, dei luoghi rimasti identici e di altri radicalmente trasformati. Qualcosa che è entrato per sempre dentro di me e dentro il cuore e la mente di tante persone, qualcosa che ha a che fare con la mia e la nostra identità personale e collettiva. Ripercorrendo i luoghi del Villaggio – sia nella memoria, sia fisicamente – mi accorgo come sono cambiati e come sono cambiato io, come tutto è mutato. Capisco e ricordo come giocare e correre in queste strade, nei campi, abitare in queste case popolari, attraversare e fermarsi nella piazza, parlare con tante persone, tutto questo e altro che si è svolto qui, ha contribuito fortemente alla mia formazione, alla mia identità. Le “Due Madonne” sono diventate, così, un luogo e un evento, importante, centrale nella mia esistenza. Andare a ritroso nei diversi fatti che hanno caratterizzato questo territorio, è anche andare indietro nella mia vita, nei vari momenti vissuti, nelle persone che hanno segnato la mia crescita, la mia evoluzione. Mi accorgo di come sono cambiato, in questi anni, anche nel modo di vedere la vita, gli altri, la religione, la politica, il valore del presente e del futuro. Ri-vedere e ri-percorrere tante persone, luoghi, eventi della storia del Villaggio mi ha aiutato a capire un po’ di più me stesso, a dare un senso a questi anni. Ha consentito, anche, di rendere più consapevole il senso di appartenenza ad una comunità in cui ho trascorso buona parte della mia vita.
Uno stimolo forte a scrivere queste note è venuto anche dalla pubblicazione di due preziosi libri sul Villaggio, il primo nel 2003, a cura della Biblioteca di quartiere “Natalia Ginzburg”, il secondo, nel 2008, per i 50 anni di storia della Parrocchia “Nostra Signora della Fiducia”.
Volumi importanti, ben fatti, riccamente illustrati e documentati. Questa mia pubblicazione, vuole invece essere diversa, non solo perché è amatoriale, ma perché di genere, in un certo senso, “diaristico”, “memorialistico”, e più orientata verso un insieme, talora semplice, quotidiano, di persone, luoghi, eventi. Ho cercato infatti di rievocare anche piccoli aspetti di vita quotidiana, concreta, minuta e di rendere omaggio a innumerevoli persone che con il loro lavoro, l’arte, la religione, la politica, gli studi, hanno dato “lustro” al Villaggio (ma anche alla città, e oltre). Si può dire che hanno “beneficato” la loro comunità di appartenenza, ed è giusto ricordarli, e farli conoscere ai più giovani.
Ho sempre pensato che la storia, tanto più di un quartiere, di un territorio, è intessuta dell’esistenza multiforme di tante persone e famiglie, e da un insieme di “microstorie di vita” che rendono in qualche modo unici, “speciali”, quel territorio e la sua storia, differenziandoli da tutti gli altri, anche tra quelli analoghi, sorti nel medesimo periodo. Perché come ogni individuo è diverso da un altro e la sua storia è irripetibile, così, la complessa relazione di tanti individui diversi in un contesto sociale particolare, dà vita a un irripetibile svolgersi di eventi, ad una storia che va ricordata – e salvata – proprio perché preziosa in quanto unica.
Così, forse, un giorno, in un banchetto di un “Mercatino delle cose antiche” qualcuno troverà qualcosa di questa storia e chissà, forse anche una vecchia copia ingiallita di questo libro.
Emanuele Grieco
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