Un altro racconto di Roberto Breschi, che ci fa rivivere attraverso ricordi ed episodi della sua infanzia, un Savena dall’atmosfera molto diversa da quella di oggi…
Verso i 12-13 anni mi fu regalata una bicicletta che allargò di tanto l’orizzonte della mia vita (il racconto di Roberto Breschi: Le grotte del Farneto). Le bici mi interessavano da tempo perché ne vedevo passare parecchie in estate, giusto quando era aperto il chiosco gelati all’angolo fra le vie Mazzini e Masi. Avevo notato che qualche avventore non sgranocchiava il cestello mangiabile, ma lo buttava via, così se ne vedevano sempre alcuni a terra a varie decine di metri dal chiosco. Non erano certo i miei che masticavo volentieri!
Notai che i ciclisti di passaggio amavano fare perfino una diversione di rotta pur di passare sopra una cialda, se era in strada, per il gusto di sentire il ‘croc’ secco sotto la ruota. Allora mi venne l’idea di raccogliere, con mia sorella, le cialde intatte e posizionarle capovolte più o meno sulla rotta delle bici, con – nascoste sotto – un paio di ‘puntine da ingegnere’, quelle usate per fissare fogli alle bacheche. Questo un po’ lontano dal chiosco perchè non ci vedesse il gelataio. Eravamo certi che nel giro di due-tre ciclisti c’era chi puntava a fare ‘croc’, investendo la ‘panierina’ come la chiamavamo noi e più di uno lo vedemmo fermarsi su per via Masi e scendere a guardare, perplesso, la ruota davanti…
Ma mia mamma lo seppe e minacciò di ‘portarmi dalla Sampira’ per farmi ‘segnare’!
Questa Sampira che mi ispirava al solo nome molto timore, era specializzata appunto nel ‘segnare’ i ragazzi troppo vivaci con un misto, credo, di preghiere cattoliche e riti antichi, che faceva ai molti recalcitranti ragazzini che le madri le portavano. La conoscevano tutti come ‘proto-specialista’ a metà fra stregoneria, religione e psicologia, popolarissima anche perché si accontentava di offerte libere, spesso sotto forma di polli o uova, visto che parecchi ‘clienti’ venivano dalla campagna.
Non erano certo riti cruenti, eppure mi ero intestardito di non volerci andare e così fu. D’altra parte viveva in casa il nonno, vecchio contadino della collina pistoiese classe 1876, che da piccolo mi salvaguardava dal ‘malocchio’ con un rito che andava ripetuto due-tre volte l’anno (perché l’efficacia svaniva).
Mi metteva seduto e appoggiava sulla mia testa una scodella con un dito d’acqua. Da dietro la sedia, versava tre gocce d’olio d’oliva (toscano, ovviamente). Osservava la forma che l’olio creava sulla superficie. Più era scomposta, più malocchio mi avevano gettato addosso persone invidiose. Allora, brancicando sottovoce alcune parole che non ricordo, cambiava l’acqua e ripeteva.
Di solito al terzo tentativo le tre gocce restavano nitide e staccate fra loro: voleva dire che il malocchio era stato cancellato. Il variare delle forme d’olio lo verificavo anch’io e devo dire, con stupore mai chiarito, che evolveva davvero sempre così. Poi ripeteva il tutto con mia sorella.
A questo ero abituato e mi piaceva, ma la Sampira no e poi no!
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