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La festa dell’Unità del Villaggio Due Madonne (29 maggio-23 giugno, parco Peppino Impastato) ha ospitato lunedì 17 giugno, alle 21, lo spettacolo di Fausto Carpani. Lo abbiamo incontrato.

Sono quasi le otto di sera e, sul pratone Peppino Impastato alle Due Madonne dove si sta svolgendo, da ormai tre settimane, la Festa dell’Unità, incontriamo Fausto Carpani, uno dei più famosi musicisti dialettali bolognesi nonché musicologo. Lo raggiungiamo mentre, ancora indaffarato con il suo gruppo di musicisti, sta allestendo il fonico prima d’andare a mangiare un buon piatto di tortellini al ristorante della festa e, quindi, iniziare il concerto.

Fausto_carpani_rita_roatti

Come mai hai iniziato la tua carriera musicale a 40 anni “suonati”?
Fausto Carpani:
Fino ad allora mi occupavo di altro. Strimpellavo la chitarra, poi mi è capitato una sera di un ultimo dell’anno di festeggiare con degli amici e, per l’occasione, scrissi una canzoncina, un blues. Lo cantai e uno di questi amici mi disse: “Perché non ti iscrivi al festival della canzone bolognese?”. Eravamo nell’87-88.  Avevo già fatto un primo festival e rispondo: “Ma dai, cosa sto a scrivere!?”.  Poi mettono fuori il bando del festival e mi ritelefona questo amico, che mi dice: “Fausto guarda che c’è il bando per il festival”.  Insomma, alla fine mi convince, scrivo la canzone, la trasformo a due voci e …. siamo stati selezionati.  Ci siamo presentati in piazza Maggiore e abbiamo vinto. Era il 14 agosto 1988.  Vincemmo a pari merito con Cesare Marservisi col quale, stasera, faremo alcune canzoni. È iniziato così. L’anno dopo mi ripresentai da solo con una canzone intitolata “pret Caprera, (prati di Caprara)” che è attualissima per quello che sta succedendo là ora, e ritornai a vincere. Allora a quel punto ho detto… andiamo avanti. Da allora ne ho scritte altre 120 e son qua.

Stasera giochi in casa, ma ti capita mai di esibirti in giro per l’Italia o all’estero?
Premetto che ho fatto 11 concerti a New York, insieme all’indimenticabile Stefano Zuffi,  polistrumentista. Siamo stati in Uruguay, in Brasile, in Argentina, negli Stati Uniti, in Canada, in Inghilterra, in Romania e in Francia.  Abbiamo cantato anche in dialetto bolognese facendoci precedere da traduzioni ed è stata un’esperienza, quella con Stefano, che è durata 11 anni.

Come venivate accolti?
Molto bene, siamo sempre riusciti a tornare a casa.

Ma vi rivolgevate sempre e solo alle comunità italo americane o italo francesi o italo spagnole?
In Francia andammo ospiti di una associazione provenzale dove si parlava l’occitano, la lingua d’Oc.  Fra le altre cose ci misurammo con questa associazione linguistica provenzale scoprendo (ma lo sapevamo già) che abbiamo la stessa origine, cioè io parlavo in dialetto bolognese lentamente, il presidente di quella associazione parlava in occitano lentamente e ci siamo capiti benissimo.  Ad esempio, per donna noi diciamo dona, loro dono. Mettono la o dappertutto. Ci siamo trovati benissimo anche nel parlare.

Come fai a catturare l’attenzione del pubblico più giovane?
Il pubblico dei giovani (parlo naturalmente di  quelli di qua) che hanno sentito parlare il dialetto dai nonni, sono interessatissimi, ma spesso anche quelli che  vengono da altre parti. Io dico sempre che i giovani sono delle scatole vuote da riempire.  Quando sentono questa strana lingua allora si fermano incuriositi ad ascoltare. Ogni anno, prima di Natale, ci mettiamo nell’angolo di Padre Marella davanti a Tamburini, tra via Caprarie e Drapperie, e cominciamo (senza avvertire nessuno e senza pubblicità)  a suonare.  Andiamo là verso le 11.30 e, appena appena faccio tre note e canto tre parole in dialetto ….. arrivano come le mosche sul miele. C’è una voglia di sentire la nostra parlata di una volta che se non lo provi non ci credi.

Ora una domanda un po’ tecnica… Alcune parole dialettali che usi sono diverse da quelle che conosciamo noi… ad esempio la parola “casa”; cà o chesa?
Molti vecchi dicono anche mo! A chesa… è un modo elegante.  Poi ci sono i gerghi e a me ogni tanto piace tirare fuori qualcosa di gergale. Ci sono delle parole inventate dai muratori come la sgaramozla, la forfora.  Ho dedicato una canzone alla mia nipotina Miriam, lei appena sente le prime parole si fionda sul palco a cantarla con me.  Ho una figlia che abita proprio qui al Villaggio Due Madonne. Tornando ai gerghi, il portafoglio, nel gergo dei ladri, era la lasagnatta perché ricorda una lasagna. Quello che faceva il palo durante un furto era la nona, la nonna.  Un vecchio chitarer non è quello che costruisce chitarre ma è il chitarrista. Mi raccontarono che, una volta, in via del Pratello fecero un colpo. Là vicino c’era la fabbrica del cioccolato Viola, e sparì un sacco di cacao, i carabinieri non lo trovarono. L’avevano mangiato tutti i bambini del quartiere che, quel giorno, avevano tutti la barusla cioè i contorni della bocca sporchi di cacao.

Hai individuato qualcuno a cui lasciare il testimone? C’è qualche giovane che ti segue, che vuole fare le cose che fai tu?
Al Ponte della Bionda, noi facciamo i corsi di dialetto. Fra gli allievi del corso c’è un professore autenticamente british, inglese, ex insegnante di russo all’università di Glasgow. Dopo aver girato ha deciso di vivere a Bologna. Ha comprato casa in via Murri e poi si è immerso nella cultura nostrana e viene al corso di dialetto e lo parla. Considera che al sabato facciamo un saggio e a tutti gli allievi facciamo leggere il pezzo di una poesia dialettale. Lui è l’unico che la recita a memoria. Io alle volte gli dico: “John cosa facciamo stasera?”  e lui mi risponde: “Andan a magner al taiadel.  L’insegnante di questo corso è l’avvocato Roberto Serra, che ha una quarantina di anni, parla benissimo, ha scritto dei libri insieme a Daniele Vitali. Pur essendo giovane, è una autorità in campo dialettale.  Ha due figli, due gemelli, un maschio e una femmina che parlano già l’italiano, la lingua della repubblica ceca (lingua materna), l’inglese e il bolognese. Hanno otto anni e cantano anche in bolognese. Ecco, il futuro è quello là.

Chi ti ha trasmesso questo piacere verso il racconto musicale, c’è stato qualcosa che ti ha predisposto a fare il cantastorie?
Mio padre era un melomane, era molto appassionato di musica lirica. Fondò una corale a Budrio,il paese da cui veniamo.  Aveva una discreta voce da tenore e amava moltissimo la musica. In casa nostra avevamo solo la radio e, al lunedì sera (avrò avuto 4-5 anni), stavamo tutti intorno alla radio ad ascoltare i famosissimi concerti della Martini e Rossi.  Per me, questo, è un ricordo stupendo e viene da lì, da lontano la mia passione per la musica. Poi ho cantato nel coro Stelutis.

Al Pant dla Biannda, è una tua creazione?
Sì, il Ponte della Bionda si chiama in realtà Ponte Nuovo. È un piccolo ponte che scavalca il canale Navile e che serviva per far passar i cavalli che tiravano le barche verso Bologna.  Io ne seguivo i destini da un pezzo e nel 2003 mi resi conto che stava crollando. Si era spaccato per tutta la sua lunghezza, aveva una crepa molto grande.  Siccome io ho il pallino per i canali, ho chiamato la sopraintendenza.  In realtà nessuno sapeva della sua esistenza, perché è un ponte molto piccolo, fagocitato dalla vegetazione, non lo si vedeva più. Trovai la porta giusta, la Fondazione del Monte.  All’epoca il segretario generale era Marco Poli.  Gli feci vedere le foto e in tre giorni, dico tre giorni, furono stanziati 135mila euro per salvare il ponte, che fu salvato.  Dopo l’inaugurazione mi disse: “adesso cosa facciamo?” Li vicino, tra due canali, c’era una discarica abusiva piena di lordure.  Con un gruppo di amici andammo a parlare con la proprietaria, alla quale il Quartiere aveva già mandato un’ingiunzione di sgombero.  Le chiedemmo se ce lo dava in comodato d’uso gratuito per 5 anni, noi avremmo sgomberato tutto.  Per 5 anni facemmo spettacoli lì, poi si aprì un contenzioso che si concluse in tribunale. Il nuovo proprietario mise tutto in vendita. L’area dove noi facevamo le serate era di circa 4000 metri quadrati: una vecchia stalla andata a fuoco, un capannone, un magazzino ecc.  L‘ultima notte dell’anno di 5 o 6 anni fa, dopo aver fatto lo spettacolo, annunciai pubblicamente che la nostra avventura al Ponte della Bionda sarebbe finita lì perché il proprietario avrebbe messo in vendita tutto e noi i soldi non li avevamo.  Il giorno dopo mi telefonò un signore… comprò tutto lui. E siccome la stalla era andata a fuoco, la ricostruì e adesso è la nostra sede, con tutti i confort moderni. Costui era Giorgio Ventura, vendeva gli elettrodomestici a Casalecchio”.

Un vero mecenate!?
Sì, un vero signore!!!

Prima di salutare e ringraziare Fausto Carpani, Anna Rosa ci scatta una bella foto col sole di giugno al tramonto.

di Rita Roatti, in collaborazione con Sergio Palladini

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